Spasticità post ictus, il percorso dopo l’evento acuto è una corsa ad ostacoli. Da Camerae Sanitatis appello a non lasciare soli i pazienti

È la terza causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie. È la prima causa di disabilità. Parliamo di ictus. In Italia colpisce ogni anno 185mila persone: 150mila sono i nuovi casi e 35mila le persone che hanno un nuovo ictus dopo il primo episodio. Già questi numeri basterebbero a spiegare la necessità di tenere alta l’attenzione sulla malattia, ma la verità è che c’è da fare ancora più di quanto questi primi dati possano far pensare. In Italia, infatti, nonostante nei primi due mesi dal ricovero i pazienti con esiti di ictus che necessitano di riabilitazione (il 60% circa delle persone colpite) riescono ad accedere alle terapie riabilitative, nella fase immediatamente successiva, si trovano ad affrontare strade molto più impervie e confuse rispetto alla gestione degli esiti. Le carenze dell’assistenza sul territorio per questi malati sono infatti altissime, con il rischio di lasciare il paziente solo nel riconoscere le complicanze che dall’ictus possono seguire, proprio come la spasticità post ictus.

Di questi si è parlato nell’ultimo appuntamento di Camerae Sanitatis, il format editoriale multimediale nato dalla collaborazione tra l’Intergruppo parlamentare Scienza e Salute e SICS editore, che ha approfondito il tema della riabilitazione neurologica post-ictus anche alla luce della centralità del ruolo dei caregiver e dei familiari nella gestione delle persone che sviluppano complicanze post ictus, come ad esempio la spasticità, per promuovere e regolamentare un approccio multidisciplinare.

A confrontarsi, nel corso della puntata condotta da Ester Maragò (Quotidiano Sanità) sono stati l’on. Fabiola Bologna, segretario della XII commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati; Maria Concetta Altavista, direttore dell’Uoc di Neurologia della Asl Roma1 – presidio Ospedaliero San Filippo Neri, e rappresentante regionale della SIN (Società Italiana di Neurologia) Lazio; Antonio Caponetto, capo dell’Ufficio per le politiche in favore delle persone con disabilità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri; Fabrizio Giorgio Pennacchi, presidente di A.L.I.Ce (Associazione per la lotta all’ictus Cerebrale) Lazio Odv; Giusy Pipitone, presidente Anin (Associazione nazionale Infermieri in neuroscienze).


A Maria Concetta Altavista il compito di illustrare le caratteristiche della malattia allo scopo di individuarne i bisogni, in particolare, quelli non soddisfatti. Il direttore dell’Uoc di Neurologia della Asl Roma1 e Segretario regionale Sin Lazio ha anzitutto ricordato come l’ictus sia una malattia tempo-dipendente: “Accade in pochi minuti e lascia esiti con cui fare i conti per tutta la vita e che possono essere molto diversi a seconda dell’area del cervello che colpisce: disturbi del linguaggio o della vista, disturbi della sensibilità, emiparesi ed emiplegia”.

L’emiplegia in particolare, ha spiegato Altavista, “può essere complicata dalla spasticità, evenienza che si manifesta solitamente nei primi mesi appena successivi all’ictus ma che altre volte può comparire anche a distanza di un anno e che peggiora la mobilità, provoca dolore, facilita la formazione di piaghe da decubito; peggiora, in sintesi, in maniera significativa la vita dei pazienti e dei caregiver. Per molti degli esiti non esistono terapie specifiche ma per la spasticità possono essere mettere in atto alcune strategie terapeutiche che possono evitare quei successivi aggravamenti citati precedentemente”.

Cosa si può fare per contrastare queste criticità? “Per la fase acuta — ha spiegato Altavista — esistono una serie di trattamenti e percorsi precisi e ben tracciati che, ovviamente, vanno ancora diffusi sul territorio nazionale ma che sono efficaci e, comunque, chiari. Il vero problema si presenta nel post-acuzie perché trovare sul territorio tutti i servizi di cui il paziente ha bisogno e un monitoraggio attento alle sue condizioni è molto difficile”.

Per Altavista la questione dell’assistenza dei pazienti colpiti da spasticità post ictus parte principalmente da due presupposti: “Da una parte la formazione del personale sanitario, in primis i medici di base, che sono il primo punto di riferimento sul territorio. Occorre poi creare dei percorsi più chiari, che mettano in rete tutte le strutture di riferimento e il personale sanitario e sociosanitario, in modo che esista per il post acuzie un percorso preciso ed efficiente come accade per la fase acuta”.

Dopo il punto di vista degli esperti sulle criticità, non poteva mancare quello dei pazienti e dei caregiver, rappresentati in questa occasione da Fabrizio Giorgio Pennacchi. Per il presidente di Alice Lazio “l’ictus è una patologia su cui ancora si sta imparando molto. Negli anni si sono sviluppati modelli multidisciplinari, che vedono anche la presenza degli psicologi, che aiutano a inquadrare i bisogni del paziente in modo più ampio”. Questa catena virtuosa tuttavia, anche per Pennacchi, si interrompe con il rientro a casa del paziente.

Il presidente di Alice Lazio ha posto l’accento, in particolare, su una problematica che spesso viene lasciata a sé. “I paziente colpiti da ictus dopo i 70 anni subiscono spesso un rapido deterioramento cognitivo. Non si tratta solo dell’afasia, già citata, ma di disturbi che vanno dalle amnesie allo svolgimento di calcoli, dalle difficoltà di elaborare processi mentali che prima erano semplici ai cambiamenti dell’umore”. Su questo fronte, ha spiegato Pennacchi, “la nostra associazione, nel suo piccolo, è impegnata a farsi carico di finanziare servizi di riabilitazione cognitiva per i pazienti che non sono in grado di farvi fronte autonomamente”.

Per il presidente di Alice c’è quindi bisogno di più attenzione anche alla sfera mentale per i pazienti colpiti da ictus, “che si risvegliano con la vita spesso stravolta e per questo provano paura, poi rabbia, frustrazione e depressione”.

Giusy Pipitone ha quindi espresso l’impegno dell’Anin (Associazione nazionale Infermieri in neuroscienze) per una formazione di alto livello e un ruolo sempre più attento e proattivo degli infermieri nei confronti dell’ictus che fin dall’inizio, “essendo un evento di urgenza e una patologia tempo dipendente, va affrontata e gestita con un gioco di squadra che agisce un po’ come si fa durante i pit stop della Formula 1”. Ma che va affrontata e gestita anche nelle sue possibili sequele: nell’ambito delle Stroke Unit, per la presidente di Anin, gli infermieri sono chiamati, infatti, a “riconoscere le complicanze e prevenirle. Dobbiamo puntare ai gold standards per limitare gli esiti negativi e garantire il migliore recupero possibile delle abilità residue a tutti i pazienti”.

Tuttavia, ha evidenziato Pipitone, “in Italia ci sono tutt’ora poche Stroke Unit alcune delle quali non sono neanche riconosciute come terapie post intensive. La dotazione di personale speso è inadeguata per quel tipo di unità operative e c’è una grande disomogeneità di opportunità per i pazienti tra il nord e il sud del Paese”. Per la presidente dell’Anin la parola d’ordine è quindi investire: “Sul personale, sulle stroke unit, sull’assistenza territoriale, sulla prevenzione. Anche coinvolgendo sempre più pazienti e caregiver, il cui empowerment è sempre importante per la riuscita di un percorso di cura e che invece oggi si sentono spesso soli e abbandonati al loro destino”.

La parola è quindi passata alla politica. Il capo dell’Ufficio per le politiche in favore delle persone con disabilità presso la presidenza del Consiglio dei Ministri, Antonio Caponetto, ha voluto anzitutto fare il punto sulla legge delega per la disabilità approvata nel dicembre 2021. “Si tratta — ha spiegato — di una delle riforme previste dal Pnrr. Un provvedimento atteso e inserito in precedenti programmi di riforma del nostro Paese” ma che non aveva ancora visto la luce e nei confronti del quale “il Pnrr ha fatto da volano”.

Il primo punto cardine di questa legge delega, per Caponetto, “sta nell’obiettivo di recepire in maniera più precisa e coerente la definizione di disabilità che arriva dalla Convenzione internazionale dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità, che parla di disabilità come di una condizione duratura che impedisca una relazione completa con l’ambiente circostante. In Italia la Convenzione era già stata ratificata da anni, ma restava ampiamente legato alla verifica della capacità di lavoro del paziente, dunque su un approccio medico legale”.

“Non è intenzione della legge — ha precisato il capo dell’Ufficio per le politiche in favore delle persone con disabilità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri — stravolgere questo meccanismo, ma l’approccio va ampliato per avvicinarsi a una valutazione che sia più coerente con la definizione Onu, anche attraverso l’utilizzo di scale di valutazione che permettano di mettere in relazione la menomazione con la capacità di interagire con l’ambiente circostante”.

Altro punto qualificante della legge, per Caponetto, sta nella multidisciplinarietà. “Il meccanismo di accertamento delle disabilità infatti — ha spiegato — si svolgerà in due fase: nella prima sarà eseguita una valutazione di base, di cui ho precedentemente parlato; il secondo livello di valutazione, che sarà attivato solo su richiesta dell’interessato, servirà ad arrivare all’individuazione di un progetto di sostegno individuale che tenga conto della specificità della situazione della persona. La logica è mettere insieme la parte medica e quella sanitaria, quella sociale e assistenziale, per arrivare a una soluzione il più personalizzata possibile”.

Prevista anche l’istituzione di un Garante per le persone con disabilità, “che ci aiuti a garantire che ci siano risposte sul territorio e che siano più omogenee tra loro, perché sappiamo bene che non mancano i casi di inerzia e di scarsa sensibilità in certi luoghi”.
Ancora, “un successivo provvedimento mirerà a spingere le pubbliche amministrazione ad adeguare i servizi e l’organizzazione alle esigenze delle persone con disabilità”.

“L’ultimo livello legislativo in programma — ha spiegato Caponetto — prevede l’individuazione di standard su tutto il territorio al di sotto dei quali è indispensabile non scendere”.

A chiudere la puntata di Camerae Sanitatis è stata l’on. Fabiola Bologna, che ha portato il suo contributo non solo di parlamentare, ma anche di neurologa. “Abbiamo tante realtà sul territorio nazionale, alcune funzionano bene e altre meno bene. La verità è che i servizi viaggiano sulle gambe delle persone che li attuano. È quindi evidente che possiamo fare tantissimi PDTA ma se non abbiamo un numero di personale adeguato, restano solo dei bei progetti sulla carta”.

Per Bologna è quindi necessario creare un sistema che permetta ai pazienti e ai caregiver di “avere ben chiari i loro diritti, dove si può trovarli e come ottenerli, senza dovere affrontare viaggi della speranza per cercare risposte che oggi sono un miraggio o dovere rinunciare alla propria vita, cosa che i caregiver spesso sono costretti a fare per assistere il proprio caro”.

Per la deputata e neurologa “questo momento di riforma della sanità è una occasione unica e può essere anche quella giusta per creare un punto unico di accesso, che dovrebbe essere la casa della salute, in grado di mettere, anche nel caso dell’ictus, al centro il paziente e valorizzare i professionisti, perché sono due facce della stessa medaglia. Lo Stato potrebbe intervenire anche ammettendo di non poter garantire oltre una certa soglia di prestazioni, ma facendosi carico di un ruolo di facilitatore che permette ai pazienti di trovare chi può aiutarlo a prezzi accettabili

di Lucia Conti

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